Non possiamo salvare l’Amazzonia o prevenire le prossime pandemie, senza cambiare la nostra alimentazione

Il 5 settembre 2020 è la Giornata Mondiale dell’Amazzonia, ma cosa c’è di così importante in questo habitat naturale, e cos’ha a che fare quello che mangiamo con la sua conservazione?

La Foresta Amazzonica si estende per 9 paesi diversi, per un totale di cinque milioni e mezzo di chilometri quadrati: è la più vasta foresta pluviale del pianeta e ospita una biodiversità incredibile.

Fra le specie conosciute al mondo, una su 10 vive nella foresta amazzonica, incluse 40.000 specie di piante, 3.000 specie di pesci, 2.000 uccelli e mammiferi e oltre 800 specie di rettili e anfibi, senza contare i 2 milioni e mezzo di specie di insetti. È uno degli ultimi rifugi del pianeta per i giaguari, le arpie, e i delfini rosa del Rio delle Amazzoni, nonché un rifugio per innumerevoli vettori di malattie, come i pipistrelli, le zecche e le zanzare.

Oltre a tutto questo, la foresta amazzonica è casa per oltre 30 milioni di persone, inclusi 350 gruppi indigeni ed etnici che dipendono dalla foresta pluviale per cibo, vestiario e cure medicinali. Ma il fatto che dia sostentamento a così tante vite e ad una tale biodiversità è solo una delle ragioni per cui la foresta amazzonica è così importante.

Questa fitta jungla è anche una fonte essenziale d’ossigeno per tutto il pianeta, e contribuisce ad alleviare gli effetti dei cambiamenti climatici assorbendo l’anidride carbonica e altri gas serra riscaldanti prodotti dalle attività umane. In un certo senso, agisce come un polmone al contrario, inspirando gas dannosi per il nostro ambiente ed espirando fino al 9% dell’ossigeno che ci permette di vivere.

Le foreste pluviali tropicali come l’Amazzonia possono fornire il 23% della mitigazione dei cambiamenti climatici necessaria per raggiungere gli obiettivi fissati negli accordi di Parigi, ma senza la Foresta Amazzonica l’inquinamento e il surriscaldamento globale aumenteranno. Di conseguenza, il nostro pianeta vedrà un susseguirsi sempre più frequente di eventi climatici estremi, come uragani catastrofici, ondate di calore, alluvioni e incendi, oltre allo scioglimento delle calotte artiche e dei ghiacciai, l’innalzamento della temperatura degli oceani e l’estinzione di massa di un numero imprecisato di specie.

Sebbene molti di noi assistano a questi disastri naturali solo attraverso i telegiornali, se non facciamo la nostra parte nel salvare l’Amazzonia ci toccherà presto sperimentarli sulla nostra pelle.

I cambiamenti climatici a livello globale hanno anche influito sui processi di trasmissione delle malattie infettive, creando condizioni climatiche più adatte alla sopravvivenza e all’evoluzione di patogeni letali. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha previsto che con un innalzamento della temperatura terrestre di appena 2-3°C, aumenterebbe di svariate centinaia di milioni il numero di persone a rischio malaria.

Anche la deforestazione spinge gli animali portatori di malattie, come pipistrelli e zanzare, ad allontanarsi alla ricerca di cibo. E nel farlo, vengono a stretto contatto con gli esseri umani e gli animali negli allevamenti, portando con sé virus letali con potenziale pandemico.

Il CoVid-19 ha reso il mondo dolorosamente consapevole della terribile potenza che i patogeni zoonotici (che fanno cioè il salto di specie animale-umano) possono scatenare, e più distruggiamo gli habitat delle foreste, più alto sarà il rischio di trovarci nel mezzo di una nuova pandemia. Di fatto, quasi tre malattie infettive emergenti su quattro sono legate ai cambiamenti d’uso delle terre e alla deforestazione.

La deforestazione è un problema sempre più grave che bisogna affrontare, ma prima occorre capire quale ne sia la causa.

Circa il 17% della foresta amazzonica è già stato distrutto negli ultimi 50 anni, per la maggior parte attraverso incendi d’origine dolosa, un’estensione molto più ampia di quanta non ne sia stata distrutta nei 450 anni precedenti. Nel solo Brasile, equivale a circa 770.000 km quadrati – un’area più vasta dello Stato del Texas (due volte e mezzo l’Italia).

Il 2020 ha visto un netto incremento della deforestazione, nonostante l’importanza che la foresta amazzonica riveste nell’attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici, limitare la diffusione di malattie e la perdita di biodiversità, senza contare che le malattie respiratorie causate dall’inquinamento dell’aria dovuto agli incendi hanno aggravato l’impatto che il CoVid-19 ha avuto sulle comunità indigene che vivono nella regione amazzonica – comunità che oggi contano un tasso di mortalità doppio rispetto a quello del Brasile.

Cosa sta succedendo, e chi è il responsabile?

Beh, la risposta breve è che lo siamo tutti.

È facile addossare la colpa dei cambiamenti climatici o della deforestazione altrove, come all’industria dei combustibili fossili o ai produttori di olio di palma – che sono senza dubbio meritevoli di una qualche colpa – perché farlo ci permette di non fare nulla, o molto poco, al riguardo. Ma purtroppo non c’è speranza di salvare l’Amazzonia o arrestare i cambiamenti climatici o prevenire la prossima pandemia se non riusciamo a parlare francamente di ciò che ne è davvero la causa, così come di ciò che è in nostro potere cambiare per correre ai ripari.

La verità scomoda è che l’agricoltura animale – l’industria che sta sfamando il nostro insaziabile desiderio di carne – è la prima causa al mondo della deforestazione, ed è responsabile dell’80% del tasso attuale di deforestazione amazzonica. Nella sola Amazzonia brasiliana vengono allevati 200 milioni di bovini e il Brasile è il maggior esportatore di carne bovina al mondo, coprendo da solo il 25% del mercato globale (parliamo di circa 1,64 milioni di tonnellate di carne all’anno) fra America, Europa e Asia.

Quindi, in poche parole, il problema è ciò che mangiamo

Né le aziende, né la politica possono intervenire in questo caso, e non si tratta neanche di risolvere il problema di qualcun altro: dipende da noi, dalla domanda dei consumatori. L’Amazzonia deve essere al centro di un cambiamento dei nostri valori, non una preoccupazione negli anfratti più reconditi della nostra mente, che viene silenziata non appena il cameriere arriva al tavolo a prendere la comanda.

Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC), se anche portassimo a compimento tutto quanto necessario per salvare il pianeta, senza però cambiare le nostre abitudini alimentari, non riusciremo comunque a raggiungere gli obiettivi previsti dagli accordi sul clima di Parigi.

Le conversazioni sul rinunciare a carne, uova e latticini spesso mettono le persone sulla difensiva – anche e soprattutto perché il cambiamento può essere difficile. Ma se davvero ci interessa salvare l’Amazzonia, proteggere i nostri cari da pandemie evitabili, e salvaguardare il nostro pianeta per le generazioni a venire, allora dovrebbe essere gratificante e stimolante sapere che se scegliamo di accettare questa sfida, allora NOI possiamo essere il cambiamento che auspichiamo per il mondo.

Non possiamo continuare a cibarci di alimenti d’origine animale e tutelare contestualmente il nostro meraviglioso pianeta. Dobbiamo scegliere: o abbandoniamo le nostre abitudini alimentari distruttive, o rinunciamo all’Amazzonia. È davvero così semplice. Ed è anche così terribile. Fortunatamente, con un numero sempre maggiore di deliziose alternative a carne, uova e latticini ormai disponibili sul mercato, non è mai stato così semplice adottare uno stile di vita sostenibile e vegetale.

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